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Redazione del giornale Spazio.

Diario aperto dalla prigione della casa Circondariale di Bergamo


Adriana Lorenzi (Direttrice editoriale del giornale)

Ci sono persone che fanno i luoghi. Don Fausto Resmini è il carcere di Bergamo insieme ai detenuti, all’Amministrazione penitenziaria, agli operatori di tutte le aree, agli agenti di Polizia Penitenziaria, ai volontari. La sua morte è una ferita che crepa i muri del carcere, i cuori dei detenuti e di tutte le persone che l’hanno sempre incontrato ogni giorno nelle diverse sezioni. La prima volta che sono entrata in carcere, l’8 marzo del 2002, lui era a teatro insieme a me: presentavo il lavoro di scrittura che sarei andata a fare con le donne nella sezione femminile e mi ha stretto la mano e augurato buon lavoro. Era contento perché era sempre felice di tutte le iniziative che coinvolgevano le persone detenute che seguiva già da tempo. Ogni volta che lo incontravo lungo il corridoio mi chiedeva: «Come sta andando?». Voleva sempre sapere come procedeva con le persone detenute, come stavo io con loro e loro con me. Quando il laboratorio di scrittura è diventato la redazione del giornale del carcere Spazio. Diario aperto dalla prigione, non ha mancato di chiedermi alcune copie per portarle agli ‘ultimi’: a chi non partecipava al laboratorio di scrittura, non seguiva le lezioni scolastiche o altre attività. Lui pensava a loro. E con loro leggeva le pagine del giornale e poi mi faceva sapere delle discussioni, o anche solo osservazioni, che erano nate da quella lettura. Don Fausto sapeva valorizzare i gesti: un saluto, una lettura, una stretta di mano, un sorriso. Un uomo di poche parole e di tanti sorrisi. Così incoraggiava tutti ad andare avanti, a non smettere di avere fiducia. Di avere fede. «Se lo dice don Fausto»… «c’è don Fausto»… allora tutto era a posto; tutto andava bene. Oggi la sua morte è una crepa nel carcere e nei cuori di tutte le persone che sanno di dovergli un’infinita gratitudine per le parole e le attenzioni ricevute. Come ha detto l’agente il Sovrintendente Capo della Polizia Penitenziaria Michele Frasca «Noi abbiamo perso un aiuto cruciale. Se accadeva un lutto a un detenuto… se c’era un problema con un detenuto… chiamavamo don Fausto e lui arrivava e risolveva; lui telefonava ai familiari dei detenuti e poneva rimedio a ogni incidente. Si preoccupava di noi e del nostro lavoro». Appunto se c’era don Fausto, andava tutto bene. Non sembra davvero possibile che don Fausto non ci sia più e un’insegnante della scuola in carcere, Catia Ortolani, ha già inviato alla Direttrice Teresa Mazzotta un suggerimento prezioso «Considerando che il nostro carcere si chiama semplicemente Gleno, prendendo il nome dalla strada in cui è ubicato, e dalla diga, che certo non è ricordata per un evento felice, avrei pensato che potremmo cogliere l'occasione per dare finalmente un nome a questo anonimo Istituto: Casa Circondariale don Fausto. È un modo per incontrarlo ancora ogni giorno».

Così raccontano di lui alcuni detenuti della redazione del giornale

Fulvio

Quando mi arrestarono la prima volta, mi misero in isolamento e io mi sentivo come un cane rabbioso che nessuno poteva avvicinare. Poi il secondo o il terzo giorno si è aperto lo spioncino della porta blindata e ho visto la faccia di un uomo, la faccia di don Fausto con i suoi occhiali inseparabili
e lo sguardo buono che mi ha detto: «Ma benedetto ragazzo che cosa hai combinato per essere così isolato?». Io gli ho risposto con ironia: «Niente don!» Lui mi ha sorriso e ha aggiunto «Se ti serve qualcosa, una radiolina, un libro o se hai anche solo voglia di parlare con me, chiedi di me, fammi chiamare dagli agenti: mi chiamo don Fausto». Sono passati tanti anni da allora, insieme ne abbiamo viste e ne abbiamo passate tante. Abbiamo spesso incrociato i nostri sguardi nei corridoi delle sezioni, a teatro, e abbiamo sempre scambiato anche solo due parole: «Come stai?» «Come va?» e poi tutto mi sembrava più bello perché in carcere basta davvero poco per sentirsi considerati. Io so quanto don Fausto faceva qui per noi e nella sua Comunità a Sorisole: a volte facevamo un pacchetto con abiti, scarpe e altre cose per le persone bisognose che lui seguiva. Sapevamo che sarebbe finito in buone mani grazie a lui. Non mi scorderò mai la Via Crucis che organizzava a Pasqua: dava a noi e non ad altri il compito di portare la croce. Sentivo in quel momento quanto credesse in ciascuno di noi. Mi spiace da morire. Qui dispiace a tutti di cuore questa sua morte. Io dico spesso che un saluto non è mai un addio e sono certo che da lassù, al fianco di quel Dio del quale ci parlava con passione, pregherà ancora per noi e lo sentiremo ancora vicino.

Attilio

Io ricordo quando l’ho incontrato qui in carcere. Ero in Accoglienza e lui mi chiese se avevo bisogno di qualcosa. Era stato così gentile che gli chiesi di chiamare la mia famiglia per rassicurarla. Mi fece chiamare qualche giorno dopo per dirmi dei miei genitori e per annunciarmi la possibilità di andare in Comunità da lui. Accettai immediatamente e ricordo ancora l’apertura del cancello del carcere e lui era lì che mi aspettava. Ero felice, entusiasta e non sapevo davvero come ringraziarlo per quella opportunità. Avevo sbagliato ma lui mi offriva la possibilità di rimediare. Ho lavorato in Serigrafia e il sabato sera andavo con lui alla stazione per dare un pasto caldo ai senza tetto. Cercavo di aiutare altre persone in difficoltà così come lui aveva aiutato me. Quando è arrivata la brutta notizia questa mattina non riuscivo a credere che fosse vero. Sapevo del suo ricovero e ho pregato tanto per lui così come lui aveva fatto tante volte per me. Fatico ancora a credere all’idea di non incontrarlo più qui in sezione, nei corridoi, ma spero di aver appreso da lui il fatto di apprezzare le cose semplici, le piccole cose della vita.

Vitor

Caro Don Fausto, ci siamo conosciuti qualche anno fa: mi avevi chiamato per conoscermi un po’ e conoscere la mia storia e da allora non hai smesso di essere disponibile ad aiutarmi in qualsiasi momento. Mi spiace oggi di non aver mai avuto la possibilità di ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me e anche per tanti altri detenuti come me e per i ragazzi della tua comunità. Pensavo che ci sarebbe sempre stato il tempo per farlo. Questo è l’errore che facciamo sempre: pensiamo di avere sempre tempo. Invece a un certo punto non ce n’è più. E con te è accaduto davvero troppo in fretta. Io ricordo la volta in cui è venuta ospite da noi l’allora Vice-Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia al termine di un percorso sulla Giustizia Riparativa organizzato dalla Caritas e che
noi avevamo seguito. Era la prima volta che potevamo condividere il cibo con i nostri ospiti lungo il corridoio del carcere. Al buffet c’erano i tuoi ragazzi di Sorisole a servire pizze, panini, crostate e fette di panettone ed erano di origine albanese, come me, così me li hai presentati e io ho chiacchierato con loro nella mia lingua. Ricordo ancora l’emozione e la gratitudine perché avevi capito me e loro. Ti porto nel mio cuore e spero che queste mie parole ti raggiungano adesso.